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Ghost Town

 

Cosa ci spinge a fotografare luoghi abbandonati? 

 

Cosa ci spinge a camminare in posti deserti, dimenticati, rischiando anche la nostra incolumità pur di soddisfare questa sete, quasi insaziabile, che nel corso del tempo ci ha sempre pervaso? 

 

Sedute intorno ad un tavolo, dopo ognuna di queste innumerevoli scorribande, continuamo a chiedercelo, a volte seriemente, a volte scherzandoci un pò su.

 

Sicuramente girovagare per questi posti ci offre la sensazione di sentirci dei fantasmi che girano all'interno di queste stanze abbandonate. E' un'esigenza legata alla scoperta, al brivido, alla ricerca di qualcosa che abbia lasciato una traccia, un tesoro nascosto, un oggetto appartenuto a qualcuno e che ora non c'è più. Ed ecco che ci fermiamo di fronta ad un macchinario, un vecchio vestito, un frammento di foto ingiallita dal tempo, una cartolina, un documento, restandone quasi ipnotizzate, cercando la maniera migliore di ritrarlo.

 

E' una sorta di sete dell'anima, che viene placata solamente quando ci addentriamo in questi posti; il fascino dei luoghi deserti e abbandonati è per noi irresistibile. 

 

Con la nostra macchina fotografica guardiamo questi luoghi; per un attimo, la realtà scompare, e noi ci ritroviamo a fantasticare e davanti la lente del nostro obiettivo si materializzano storie, storie sui luoghi, su come dovevano essere, su chi l'aveva abitati, su chi ci aveva lavorato...... improvvisamente non vediamo più abbandono e rovine, ma situazioni, persone, momenti che si perpetuano nel tempo, grazie alla nostra (fertile) fantasia.

 

Potremmo dire che li fotografiamo per tenere in qualche modo viva la memoria di questi luoghi, ma questa è solo una faccia della medaglia; in realtà esise una motivazione molto più personale e profonda.

 

Dentro le stanze vuote, le strade deserte, le rovine, i pezzi di vetro sparsi a terra, c'è una parte di noi, qualcosa che, probabilmente stiamo cercando; sono frammenti che cerchiamo di rimettere a posto per ritrovare la nostra integrità (quasi una metafora gestaltica), oppure sono storie da completare, dove il destino, nella sua sottile ironia non ci ha lasciato mettere la parola "fine", sono storie che reinventiamo solo per noi, per poter avere il nostro "lieto fine".

 

Si, le nostre spedizioni in questi luoghi hanno una matrice introspettiva, una continua ricerca interiore, ricerca di sé, di quello che abbiamo perduto o di quello che vorremmo ancora accanto a noi, così come la ricerca di una propria identità. Un altro aspetto è quello legato al bisogno di guardare attraverso la protettiva lente dell'obiettivo, un dolore, una tristezza, una frustrazione; la guardiamo impressa sul sensore, stampata in una fotografia,  e quando finalmente la vediamo fuori da noi, la riconosciamo per quella che è, le diamo dignità e una voce, perchè in questo modo non farà poi più così male.

 

 

 

Le gallerie che trovate qui sotto, sono relative solo ad alcuni scatti; il resto del materiale è usato per la pubblicazione. A breve metteremo i link relativi ai fotolibri che, via via, andremo a realizzare.

 

Buona visione!

Poggioreale

 

Sono trascorsi quasi 45 anni da quella notte tra il 14 e il 15 Gennaio 1968, quando un violentissimo terremoto sconvolse la vita dei paesi nella Valle del Belìce, tra le province di Agrigento, Trapani e Palermo. Il sisma causò la morte di circa 400 persone, e rase al suolo quattro centri abitati, danneggiandone seriamente un'altra decina. Gli oltre 70mila sfollati trovarono per anni riparo in tendopoli e baraccopoli. Tra i Comuni maggiormente colpiti Poggioreale, che dopo il terremoto venne abbandonato al suo destino, diventando una vera e propria città fantasma. Una "fotografia" reale di quei giorni di paura. Addentrarsi tra le vie del grosso centro è come attraversare uno scenario decadente e suggestivo, sospeso tra il presente e il passato. Poggioreale è la testimonianza in disfacimento di quella che era la vita prima del 1968, con le officine, il panificio, il salone del barbiere sulla piazza Elimo ancora ben riconoscibili. Un "non luogo" in cui il silenzio surreale è interrotto solo dai suoni della natura e delle macerie in rovina, dove a farla da padrone è il senso della precarietà umana.

I borghi del Fascismo

“Ho visto i paesi fantasma della Sicilia, i paesi costruiti non si sa perché e non si sa per chi, case, strade, piazze, chiese, monumenti, scalinate, fontane. Nessuno è mai andato ad abitare in queste case, nessuno ha percorso queste strade e queste piazze. Fra gli archi dei portici, che sembrano ritagliati da un quadro metafisico, il passo richiama un’eco allucinata nella profondità del silenzio. Qui avrebbero dovuto cominciare una nuova vita i contadini siciliani riscattati dal latifondo: ma i borghi sono stati costruiti a distanze insuperabili dalle terre loro assegnate. Oppure erano vicini alle terre, ma allora mancava l’acqua. Oppure c’era anche l’acqua, ma sarebbe stato troppo costoso far arrivare la luce. Così l’opera è restata a metà, mentre si è messo mano ad un’altra impresa, che anch’essa non è arrivata a compimento perché una nuova autorità rivale ha conquistato il potere e non ha voluto confondere l’iniziativa propria e l’altrui: e pertanto, per la terza volta, si è ricominciato tutto daccapo, da un’altra parte, e ancora non è finito”.

 

Con queste parole, pubblicate il 23 giugno del 1963 sulle pagine del settimanale EPOCA, Giuseppe Grazzini descrisse l’abbandono e la rovina dei borghi rurali in Sicilia, costruiti per lo più durante il regime fascista.

 

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